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Roberto Panichi

Nato a Cuneo nel 1937, vive e lavora a Firenze. Laureato in Lettere Antiche presso l'Università di Firenze, ha insegnato all'Accademia di Belle Arti di Firenze e di Macerata.
Inizia a dipingere a trent'anni, a seguito di un incontro con la moglie Nada. Inizialmente si rifà ai pittori rinascimentali, ma poi entra in contatto con gli artisti contemporanei.
Negli anni settanta stila il Manifesto dell'Espressionismo simbolico formale, e comincia a frequentare Renato Guttuso e Giacomo Manzù. Comincia ad attrarre l'attenzione della critica, tanto che espone in Italia, in Europa e negli Stati Uniti (in particolare a Los Angeles, Chicago e in California). Nel 2000 è presente, sempre negli Stati Uniti, all'Esposizione Internazionale di Miami.
Nel 2002 ha luogo la sua personale "Roberto Panichi: ciò che resta dell'avvenire". Nel 2009, invece, espone nella personale "Destrutturazioni. La persistenza della forma", presso la Sala d'Arme di Palazzo Vecchio, a Firenze. Contestualmente, porta avanti il suo lavoro di scrittore e critico d'arte.

Più di un critico si è interessato finora dell'attività di Roberto Panichi. Le sue ampie anche se non frequenti esposizioni l'hanno posto con una certa vivacità all'attenzione di molti. Per quel suo modo diretto di entrare nella realtà degli uomini e delle cose; per quel suo modo di porgere, che trattiene, senza tuttavia prevaricare, l'emozione, la sua profonda conoscenza dei mezzi di cui si serve; per quel suo accento di personalissima vibrazione poetica. Impostazione tecnica, dunque, e morale che sta alla base di un discorso che per lui diviene coscienza e modo d'essere. Non c'è frattura, non c'è rottura in questo suo aprirsi a noi: c'è, anzi, come un umile accostarsi a quelle che sono le realtà anche più semplici del nostro vivere quotidiano. Anche se i volti dei suoi personaggi, i paesaggi, gli oggetti che compongono le sue nature morte si sottopongono tutti a una specie di filtro d'amore che è la somma dei suoi interessi, della sua cultura, della sua preparazione. È, insomma, un operare "distinto": un eloquio nobile del quale senti la caratura, senza sotterfugi e soprattutto con la coscienza di avere una fede nel proprio modo d'essere e di pensare.
UMBERTO BALDINI, 1975

[…] Vedo inoltre che egli ha avuto il consenso e l'apprezzamento di critici e storici, abitualmente non impegnati nel commento di fenomeni contemporanei, quali Roberto Salvini, Luisa Becherucci, Umberto Baldini. E ciò non è senza significato. Panichi può contare anche sul mio consenso, pur se fuggevolmente espresso. Ne apprezzo la coerenza e la continuità che non si esauriscono in formule cristallizzate; il carattere di indipendenza e di libertà che manifestano le sue opere; la densità dei contenuti che si fanno espressione; il sondaggio appassionato della cultura figurativa non solo del nostro tempo. I suoi dipinti più recenti portano titoli come Archeologia, Archeologia con forme dinamiche, Duello archeologico e simili, quasi che Panichi abbia voluto sottolineare il senso metaforico delle sue figurazioni, il distacco dal vero presente cui contribuiscono i gesti che si isolano e dominano le scene. Una pittura d'impeto, tutta scoperta nel suo conformarsi e aggregarsi di segni, e sovrapporsi di colorazioni, e tramarsi di graffi. Emozioni, tensioni e turbamenti ci raggiungono e ci colpiscono proprio perché non sono espressi in atto, ma vivono e vibrano dentro e oltre il contesto pittorico.
PIER CARLO SANTINI 1988

Che la pittura sia, prima di tutto, sapienza di mestiere nessuno lo sa come Roberto Panichi, studioso specialista di tecniche e di autori antichi. Credo che pochi artisti oggi, in Italia, sappiano come lui sfruttare fino al virtuosismo le potenzialità della tavolozza giocando di velature e di lacche, di sprezzature e di trasparenze, di armoniosi accordi e di limpide dissonanze. Una conoscenza ammirevole dei materiali e delle loro risorse, un dominio perfetto dei modi operativi più raffinati governa il fare dell'artista e le sue opere sono lì a dimostrarlo. Naturalmente, tutto ciò non basta per dare immagine a quel "sogno delle cose" che è la pittura. Pittura vuol dire sapienza tecnica, pittura è "discorso mentale" (anche questo Panichi sa molto bene) ma pittura significa, nella sua ultima e decisiva sostanza, vincere l'affrontamento con la realtà. Questo è il punto. Ogni artista sa come è terribile — sempre — il corpo a corpo con le cose da rappresentare. Se ne può uscire sconfitti nel senso che è la "cosa" a trascinarti nella sua opaca deriva, a imporsi con la banalità irrimediabile della pura evidenza. Si vince quando la rappresentazione del vero trascolora nel "sogno del vero", diventa fatalità e durata del fantasma poetico. Ebbene, la vicenda pittorica di Roberto Panichi si gioca tutta sul filo di un lucido azzardo. Da una parte la smagliante tumultuosa bellezza del mondo visibile, dall'altra la dura determinazione di arrivare al cuore di quell'ambiguo splendore, così da coglierne l'essenza fantastica, i colori e le forme che per sempre la definiscono. Una dura lotta, come quella di Giacobbe con l'Angelo, è il destino del pittore; una lotta che richiede mente sagace, purezza di cuore e quella forma di intelligenza diversa e misteriosa che è la capacità di vedere quel che altri non vedono. In questo senso, la mostra che queste righe introducono è la testimonianza di una vittoria. Nell'affrontamento col vero ha vinto il pittore. La percezione della cosa è diventata "segno" e l'immagine splende e vive nei nostri occhi e nel nostro cuore al di là dell'occasione che l'ha generata, al di là dei processi culturali e degli espedienti tecnici che le hanno dato figura. Non è facile fare buona pittura. Raramente accade di gioire per lo splendore dorato di un giallo, per il melodioso virare di un verde o di un grigio. Non succede spesso di incontrare, nella immagine tenera e fosforescente di una città conosciuta, oppure in un nudo di donna al tempo stesso misterioso e attuale, l'evidenza del vero, un giorno della nostra vita e insieme la consapevolezza della fatalità e della durata. Questo è quello che si prova di fronte ai dipinti di cui si parla, ma questo e non altro è — a ben guardare — il segreto della pittura. Roberto Panichi, con le sue opere, ha dimostrato di esserci dentro. Noi non possiamo che essergli grati. Antonio Paolucci, 1998 Roberto Panichi è un pittore colto. Questo lo sappiamo bene. Lo hanno detto, del resto, tutti i suoi critici: chi scrive ma anche, fra gli altri, Raffaele De Grada e Tommaso Paloscia il quale ha coniato per lui il termine di "neorinascimentale". "Neorinascimentale" in certo senso Panichi lo è perché conosce come pochi altri, da critico e da filologo, i testi teorici di Cennino Cennini e di Giorgio Vasari, dell'Alberti e di Leonardo; "neorinascimentale" perché ha un dominio stupefacente delle tecniche al punto che pochissimi artisti oggi, in Italia, sanno come lui sfruttare fino al virtuosismo la potenzialità della tavolozza giocando di velature e di lacche, di sprezzature e di trasparenze, di armoniosi accordi e di limpide trasparenze; "neorinascimentale" infine perché crede fermamente nell'immagine dell'Uomo. Intendo proprio la figura — riconoscibile — degli uomini e delle donne. Sembra una considerazione banale. In realtà non lo è affatto se appena ci si pensa. Roberto Panichi — che è nato nel 1937 — è vissuto in un'epoca che ha visto (e ancora vede) l'immagine dell'Uomo devastata, straziata e umiliata come in nessun altro tempo della storia. La bellissima mostra di Clair alla Biennale di Venezia del '95 lo ha dimostrato con smagliante efficacia. Come si fa a credere nella dignità dell'Icona-Uomo nel secolo di Hiroshima e del Vietnam? E come si fa a credere nella unicità e irripetibilità dell'individuo nel tempo della persona- massa e della democrazia dei consumi? Eppure Roberto Panichi ha saputo conservare, attraverso un percorso lungo trent'anni, una fede indomita nell'immagine dell'Uomo: santuario di bellezza, di moralità, di ragione, punto di riferimento irrinunciabile nell'ordine del mondo e, quasi, specchio di Dio sulla Terra. Non fosse altro che per questo, per avere difeso e testimoniato, nella figurazione, il primato dell'Uomo, Roberto Panichi meriterebbe la definizione di "pittore neorinascimentale". Attenzione però a non considerare l'artista un nostalgico o, peggio ancora, un citazionista. Nulla è più lontano dalle sue intenzioni e dai suoi risultati. Prendiamo i suoi cavalli bellissimi e tuttavia inquietanti come apparizioni fantasmatiche, simili all'ombra colorata di uno splendore perduto, vivo però nella memoria e nel cuore. Uno pensa ai cavalli del Partenone e di Venezia, pensa a Goya e a Picasso, pensa alla poesia e alla letteratura dove l'immagine del cavallo trasfigura nella gloria e nel mito. Il risultato è il "sogno di una cosa" diventato, come sempre nelle sue pitture, creazione poetica durevole, governata dalla fatalità e dalla necessità. Proviamo ad ascoltarli in silenzio, i dipinti di Panichi (perché i quadri parlano, come sa bene chi ama la pittura) e udiremo un vasto brusio, armonioso e tumultuoso, che viene da molto lontano; un brusio che è, al tempo stesso, la musica tenera e straziante del tempo presente. Come la conchiglia porta il rumore del mare così i dipinti di Roberto Panichi portano il rumore di una vasta cultura figurativa, insieme alle dissonanze e agli splendori di una Modernità strenuamente vissuta e felicemente testimoniata.
ANTONIO PAOLUCCI, 1995

Opere di Roberto Panichi (26)

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