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Giovanni Boldini

Giovanni Boldini nacque il 31 dicembre 1842 a Ferrara, al n. 10 di via Volta Paletto (l'attuale Savonarola) in una casa all'angolo con via delle Vecchie. Fu l'ottavogenito di Benvenuta Caleffi (1811-1879) ed Antonio Boldini (1799-1872): lei era una donna ferrarese pia e benestante, mentre lui era un artista nativo di Spoleto. Battezzato il giorno stesso della sua nascita nella chiesa di Santa Maria in Vado, Giovanni Giusto Filippo Maria Pasini - (l'ultimo nome in onore di Filippo Pasini) - aveva dodici fratelli: Beatrice (1830), Luigi (1832), Carlotta (1833), Filomena (1835), Maria (1837), Giuseppe (1839), Giovacchino (1841), Francesco (1844), Gaetano (1846), Anna (1848), Veronica (1850), e infine Pietro (1852).

Affettuosamente soprannominato Zanin dalla famiglia, il piccolo Giovanni ricevette la cresima nel 1850 e, nel medesimo anno, fu accompagnato alla scuola elementare del quartiere San Domenico. Il Boldini, tuttavia, dimostrò sin da giovanissimo una naturale predisposizione per l'arte, tanto che già prima di imparare a scrivere riempiva i quaderni di disegni e di schizzi: a cinque anni aveva già fondato un rudimentale atelier nel granaio di famiglia. Temperamento indipendente, che mal tollerava ogni imposizione didattica, Boldini abbandonò prematuramente gli studi scolastici per imparare i primi rudimenti pittorici sotto la guida del padre Antonio, il quale seppe ben valorizzare il precoce talento del figliolo. La figura di Antonio, valido pittore purista attratto dai maestri del Quattrocento, fu infatti fondamentale per la preparazione pittorica di Giovanni Boldini. Formatosi nella bottega di un artista locale, tale Giuseppe Saroli, sappiamo che papà Antonio si trasferì a Roma per proseguire i propri studi all'Accademia di San Luca: nell'Urbe recepì le suggestioni dei Nazareni, della cerchia purista di Minardi e soprattutto della pittura quattrocentesca. Laborioso copista delle opere dell'officina ferrarese – le quali erano probabilmente smerciate da Filippo Pasini, titolare di un'importante bottega d'arte a Roma – Antonio Boldini era anche un appassionato pittore di matrice purista: il riverbero di quest'orientamento pittorico nell'ambiente ferrarese si deve proprio ad Antonio, che nel 1835 aveva anche collaborato a una rivista purista denominata Ape italiana copiandovi con minuta precisione la Resurrezione di Lazzaro di Garofalo, suo pittore prediletto.

Fu proprio nell'ambiente emiliano che Zanin mosse i suoi primi passi, fruendo dell'amorevole insegnamento del padre, il quale pur essendo lontano da ricerche figurative personali si rivelò comunque un eccellente maestro, in grado di trasmettere al figlio-allievo una sicura dimestichezza con gli strumenti di lavoro. Ne è prova il piccolo Autoritratto che Giovanni Boldini eseguì nel 1856, a soli quattordici anni, con una personalità e una scioltezza che vanno oltre la perizia tecnica. Notevole anche la copia della raffaellesca Madonna della seggiola che effettuò nel 1859 su commissione di Alessandro Gori. Due fattori, in particolare, favorirono la maturazione pittorica del Boldini, oramai divenuto un adolescente: innanzitutto l'esonero dal servizio militare di leva istituito nel neonato regno d'Italia, ottenuto per via della bassa statura (1,54 metri contro l'altezza minima richiesta di 1,55 metri), ma anche la cospicua eredità pervenutagli dallo zio paterno Luigi, il quale in assenza di discendenza diretta consegnò il proprio patrimonio finanziario e immobilare proprio ai pronipoti, destinando a Giovanni Boldini la bella cifra di 29.260 lire.[2] Con questo denaro Boldini scelse di allontanarsi da Ferrara, città i cui artisti, privi del desiderio di confrontarsi, continuavano a ripercorrere sentieri conosciuti e dall'esito artistico scontato, in un fluire sempre uguale di prodotti pittorici che non presentavano più alcun elemento d'interesse. Iniziò a trovare inadeguate anche le lezioni di Girolamo Domenichini e Giovanni Pagliarini, suoi maestri fino al 1862, e ben presto si rese conto di come la città natia offrisse ben poco al di fuori dell'esempio del padre e della nonna Beatrice Federzoni, titolare di un fiorente salotto letterario dal quale derivò un gusto contagioso per l'eleganza e la vita galante, destinato a divenire una fondamentale cifra stilistica nella sua vicenda pittorica.

Insofferente alla vita di provincia, Boldini trovò in Firenze un ambiente assai stimolante sia dal punto di vista sociale, sia da quello artistico. Una volta stabilitosi al n. 10 di via Lambertesca nel 1862, Boldini si iscrisse subito all'Accademia di Belle Arti, dove ebbe come insegnanti Stefano Ussi ed Enrico Pollastrini e dove ebbe come condiscepoli il Vinea ed il Sorbi. Egli, pur essendo totalmente all'altezza di seguire le lezioni dell'Ussi e del Pollastrini, non esitò a trovare inadeguata la mera disciplina accademica e, pertanto, se ne emancipò prontamente partecipando ai festosi e turbolenti incontri del caffè Michelangiolo che, nato col 1848, andava allora acquistando la sua celebrità e il suo carattere di ritrovo di artisti e di patrioti.

Il caffè Michelangiolo era infatti frequentato assiduamente da una vivace schiera di pittori e intellettuali aggregatasi sotto il nome di «Macchiaioli». Erano costoro degli artisti che, memori delle esperienze pittoriche del paesaggismo francese, predicavano «un ammodernamento della pittura basato sull'osservazione diretta della natura da trascrivere attraverso un largo e potente fraseggio di luci e ombre, restituendo una speciale forza ottica capace di trasmettere verosimiglianza e vitalità al soggetto» (Tiziano Panconi, Sergio Gaddi). Era infatti opinione dei Macchiaioli che una pittura per potersi dire realistica dovesse riprodurre fedelmente le dinamiche percettive dell'occhio umano, il quale può «vedere» solo ricevendo stimoli luminosi. La luce, tuttavia, non è un'entità atmosferica completamente autonoma, siccome viene percepita solo attraverso modulazioni di ombre e di colori: ecco, allora, che la pittura deve strutturarsi su colori e ombre variamente graduati mediante l'impiego delle macchie, ovverosia larghe e corpose pennellate di colore puro (donde il termine «macchiaioli», coniato dalla stampa in senso spregiativo ma accettato entusiasticamente dal gruppo).

L'esperienza macchiaiola fu senza dubbio stimolante per il Boldini, che in questo modo ebbe l'opportunità di costituire la solida tessitura luministica che ravviverà i suoi successivi dipinti francesi. Egli, pur aprendosi ad una trasformazione estetica così repentina (conviene sempre ricordare l'impostazione neoquattrocentesca dalla quale era partito a Ferrara), si pose tuttavia in maniera ambivalente rispetto all'entusiasmo naturalista dei colleghi e si sbilanciò piuttosto verso la ritrattistica, genere che apprezzava già negli esordi e che ora perseguiva con sicura scioltezza. Totalmente immerso nella sua vocazione e animato da una fruttuosa inquietudine creativa, a Firenze Boldini ritrasse amici e conoscenti, come Giuseppe Abbati, Giovanni Fattori, Vincenzo Cabianca, Diego Martelli, il Duca di Sutherland, Lewis Brown, le Sorelle Laskaraki. Questa lista di ritratti fa capire come il Boldini a Firenze avesse impegnato le sue migliori energie per raccogliere attorno a sé gli ingegni più vivi e le personalità più influenti, intessendo in questo modo una fitta rete di relazioni che si rivelò cruciale per la sua maturazione pittorica. Numerose, ovviamente, le amicizie formatesi sotto l'egida dei Macchiaioli: particolarmente profonde quelle con Michele Gordigiani (il più apprezzato ritrattista della Firenze granducale), Telemaco Signorini, Cristiano Banti (con cui visitò la reggia di Caserta) e Diego Martelli, anima intellettuale del gruppo (Boldini visitò assiduamente la vasta tenuta che il Martelli possedeva a Castiglioncello, dove ogni estate un folto gruppo di artisti si riuniva per discutere, ricrearsi, e dipingere).
Ancora più fondamentali, tuttavia, furono i rapporti che Boldini intrattenne con i ricchi stranieri residenti a Firenze e che spesso lo accoglievano nelle proprie ville. Lo vediamo frequentare il principe russo Antonio Demidoff, che gli aprì le porte della propria pinacoteca di San Donato Fiorentino, dove aveva raccolto un considerevole numero di dipinti di maestri contemporanei, soprattutto francesi. Importante fu anche l'amicizia con il francese Marcellin Desboutin, discreto calcografo e vivacissimo intellettuale che aveva istituito nella villa dell'Ombrellino a Bellosguardo «un vero e proprio avamposto della cultura d'oltralpe contemporanea, [dove ospitava] gli artisti francesi di passaggio a Firenze» (Panconi, Gaddi).[2] In questa vasta schiera di aristocratici - la quale, ovviamente, gli garantiva proficue commissioni - un posto di tutto rilievo va riconosciuto ai Falconer, nobili inglesi che ospitarono più volte il giovane pittore nella loro villetta di Collegigliato, nelle immediate vicinanze di Pistoia. Nella cornice agreste della campagna pistoiese divampò un'ardente storia d'amore che vide sentimentalmente legati il Boldini e Isabella Falconer, la quale subito divenne una munifica mecenate dall'artista. Boldini, dal canto suo, pur dedicandosi con fervore ai piaceri carnali non trascurò affatto la sua amicizia con il marito di lei, sir Walter, che invitandolo nel 1867 all'Esposizione Universale gli offrì la possibilità di vedere per la prima volta Parigi: più che Gérôme e Meissonnier, gli artisti di punta del Salon, egli ammirò soprattutto le opere del gruppo di Batignolles, con una particolare attenzione a Edgar Degas (artista che, d'altronde, soggiornò a lungo a Firenze).[4] Un altro anno particolarmente significativo per il Boldini fu il 1866, quando ebbe l'opportunità di esporre alcune sue opere nel corso della Promotrice Fiorentina. Ne parlò Telemaco Signorini in un articolo sul Gazzettino delle arti del disegno: "Il sig. Boldini di Ferrara è un nome nuovo ma che brillantemente esordisce; egli ha esposto tre piccoli ritratti di un merito non comune e un quadretto rappresentante L'amatore di belle arti; la novità del genere confonde i classificatori che non sanno assegnargli un posto nelle categorie d'arte. I ritratti si sono fin qui fatti con una massima sola, cioè dovevano avere un fondo il più possibile unito per mettere in risalto e non disturbare la testa del ritratto. Precetto ridicolo e lo dice il sig. Boldini con i suoi ritratti che hanno per fondo ciò che rappresenta lo studio: i quadri, le stampe ed altri oggetti attaccati al muro, senza che per questo la testa del ritratto ne vada a scapito. Se in natura una testa ha rilievo con degli oggetti postigli dietro, perché non dovrebbe averne più in arte se l'arte è imitazione della natura."

Nel 2017 si è tenuta a Roma, al Complesso monumentale del Vittoriano, una grande mostra antologica su Giovanni Boldini, in seguito (2018) parzialmente trasferita alla Reggia di Venaria Reale (To). Organizzata in collaborazione con il Museo archives Giovanni Boldini Macchiaioli di Pistoia, la rassegna presentava 160 opere, pubblicando nel catalogo un carteggio con 40 lettere inedite e coinvolgendo con i prestiti oltre trenta musei internazionali.

Nel 2019 il Palazzo dei Diamanti dedica a Boldini una mostra dal titolo “Boldini e la moda”[25] che analizza il rapporto del pittore con l’alta moda parigina della Belle Epoque.

Opere di Giovanni Boldini (3)


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